“La Stagione della Migrazione a Nord” prima a Napoli dello spettacolo di Alessandra Cutolo

“La Stagione della Migrazione a Nord” prima a Napoli dello spettacolo di Alessandra Cutolo

Santa Fede Liberata, sabato 23 ottobre, alle ore 18:00, ospiterà lo spettacolo “La Stagione della Migrazione a Nord” della compagnia Women Crossing. 

Lo spettacolo teatrale nasce da un laboratorio realizzato dalla regista Alessandra Cutolo in Sudan nel 2019, che poi è proseguito grazie al programma PartecipAzione finanziato da UNHCR e INTERSOS, attraverso il progetto Masra, che ha permesso la formazione di alcune persone provenienti dall’associazione Rifugiati Sudanesi di Roma, con il supporto dell’associazione Genitori Scuola Di Donato. 

La compagnia sabato farà tappa a Napoli, ospitata negli spazi di Santa Fede Liberata, in via San Giovanni Maggiore Pignatelli. Per saperne di più sul lungo e interessante percorso che ha portato alla creazione dello spettacolo, abbiamo, oggi, ospite di Stranieriincampania la regista Alessandra Cutolo.

Benvenuta Alessandra, puoi raccontarci qual è stato il percorso di preparazione di questo spettacolo?

Ho cominciato a preparare lo spettacolo nel 2018 a Roma, chiacchierando con Akram, un intellettuale sudanese che collaborava con l’Agenzia Italiana Cooperazione e Sviluppo. Discutevamo di quale fosse un testo adatto ad una drammaturgia a cavallo tra Italia e Sudan, mentre mi preparavo a fare il mio primo laboratorio teatrale in Africa. L’unico autore sudanese tradotto in italiano e pubblicato da Sellerio, ma ormai fuori catalogo, era Tayeb Salhi. “La stagione della migrazione a nord” mi è parso subito un romanzo ricchissimo di questioni, nodi problematici, storie, complesso e complicato da adattare. Il tema della migrazione si incrocia con quello della doppia assenza, della difficoltà nel ritorno in patria dopo aver vissuto in Europa, del cambiamento strutturale dell’identità del viaggiatore. E poi nella seconda parte del romanzo c’è la questione del matrimonio, la tragedia sudanese di Hosna che costretta dal padre e dai fratelli a sposare un uomo vecchio, lo uccide e si uccide. Quando sono andata a Khartoum a preparare lo spettacolo, ospite di AICS, al Teatro Nazionale Sudanese, la compagnia, formata da una ventina di attori, studenti del college di Art and Drama, ragazzi con disabilità, e attori professionisti, mi sono resa conto che la questione della doppia assenza non era assolutamente un tema per loro, mentre quella del matrimonio era ancora una problematica viva. Mi hanno anche chiesto di lavorare alla drammaturgia per adattarla e un dramaturgo del teatro nazionale ha scritto una parte corale in cui esplicitava il fatto che come il Nilo scorre verso nord e gli uccelli migrano verso nord anche loro, i giovani africani della compagnia volevano andare a nord. 

Come avete scelto gli attori e le attrici?
Lo spettacolo che è andato in scena a Khartoum a settembre 2019 era frutto di lunghe contrattazioni e conteneva le istanze degli attori. Quando sono tornata in Italia ho provato a portare lo spettacolo al festival di Napoli, che prima della pandemia lo aveva messo in programmazione, ma poi lo ha rimandato a causa del blocco dei visti, dei voli, degli spostamenti. Ero consapevole che non avrebbero avuto il visto tutti i venti attori della compagnia sudanese ma solo i più anziani, perché i giovani una volta arrivati in Europa spesso poi non tornano indietro, e ho cominciato a cercare tra i giovani sudanesi residenti a Roma degli attori, o dei ragazzi che volessero provare a diventarlo. 

Grazie a un amico mediatore ho incontrato i sudanesi che vivono a Roma nei palazzi occupati. Durante il lock down, le relazioni si sono strette abbastanza perché con l’associazione genitori Di Donato distribuivamo l’invenduto del mercato di Piazza Vittorio nei palazzi occupati e quella é stata una grande occasione di incontro e conoscenza. Col Cespi abbiamo realizzato in quel periodo una serie di interviste alla diaspora per studiare il ruolo che avevano avuto le donne nella “rivoluzione”. Alcune delle donne intervistate sono poi entrate nella compagnia. Finalmente tra ottobre e novembre del 2020, nel giardino di via Statilia, dove facevamo le prove all’aperto causa covid, sostenuti dalla fondazione Charlemagne che aveva già in passato coadiuvato le produzioni culturali dei palazzi occupati, la compagnia si è stabilizzata. Sette ragazzi sudanesi che non avevano mai fatto teatro prima, si incontravano due volte a settimana per provare lo spettacolo, Poi abbiamo cominciato a fare delle prove aperte nei parchi, sia per far testare ai partecipanti l’effetto pubblico, sia per far provare al pubblico il piacere del teatro che non era possibile fare causa covid, in sicurezza e nei parchi. Poi abbiamo partecipato al bando Partecipazione, di UNHCR e Intersos, e l’abbiamo vinto e la pratica delle prove aperte é diventata mensile. E adesso, a Napoli proviamo anche il brivido della tournée.

Lo spettacolo, partendo dal libro di Sahli Tayeb “La stagione delle migrazioni a nord”, si è arricchito delle storie degli attori e delle attrici?
 Mentre mettevamo in scena il testo ci rendevamo conto che alcuni temi, come il viaggio in mare, il rapporto col colonialismo, lo sguardo sull’Europa, oltre al matrimonio e alla circoncisione, erano particolarmente vicini al vissuto dei partecipanti al laboratorio, erano parte del loro passato recente e allora abbiamo pensato che sarebbe stata una ricchezza per il lavoro aggiungere degli inserti audio in cui rendevamo chiara la cosa. Il matrimonio combinato tra parenti, per esempio é ancora molto diffuso e alcune donne della compagnia sono venute in Europa per sottrarsi all’imposizione della famiglia. L’attraversamento del mare, la sensazione di essere davanti “all’immensità e al nulla” per prendere in prestito le parole di Tayeb Salhi, il rapporto con la paura, erano questioni che durante le prove attraversavano le improvvisazioni e arrivavano in scena.

Il testo letterario viene sempre tradito nella messa in scena ma il nostro tradimento aveva l’obiettivo della testimonianza, della presa di parola attraverso il teatro di una nuova soggettività poco visibile in contesti “culturali” e soprattutto di raccontare al pubblico quanto le letterature africane siano più prossime alle vite di chi migra.

Qual è stata la sfida più grande nel realizzare questo lavoro?
Sono state tante le sfide durante questi mesi. Le difficoltà linguistiche soprattutto, in quanto le donne parlavano pochissimo l’italiano e gli uomini che all’inizio traducevano, quando dopo il lock down sono riprese le attività lavorative hanno cominciato a venire sempre meno. Poi le gravidanze e la presenza alle prove dei figli piccoli non favorivano la concentrazione delle mamme. Per noi la sfida era tener dentro il gruppo anche delle mamme con bambini per non relegarle a casa a occuparsi dei figli. Non avevamo però le risorse necessarie al baby-sitting mentre ogni progetto del genere dovrebbe prevederle. Quando a causa del parto prematuro di due gemelli, Intisar che era una colonna portante del gruppo si è dovuta allontanare, l’abbiamo sostituita con una mamma etiope prima e poi con una donna nigeriana che facevano parte della compagnia Women crossing precedente.  Durante il percorso abbiamo perso anche uno dei ragazzi, che, avendo trovato lavoro ad IKEA con un contratto a tempo indeterminato, non riusciva a seguirci nel suo unico giorno libero. Abbiamo temporeggiato nel sostituirlo perché la sua presenza intermittente ci faceva credere che non volesse lasciare la compagnia e questo rendeva difficoltose le prove. Anche lui è stato sostituito da un nigeriano danzatore e musicista abituato alla performance e al palco. Un’altra grande sfida è stata quella di gestire gelosie e conflitti interni alla compagnia quando questa si è aperta ai contributi non sudanesi. Ma la sfida più grande è quella interna al mondo del Teatro, la necessità di fare le prove non è chiara neanche agli attori. La fatica della ripetizione uccide l’entusiasmo dell’esibizione e arrivare alla consapevolezza di questa necessità è difficilissimo.

 

Napoli, 19 ottobre 2021