La comunità ivoriana in Campania

 

Il viaggio di Stranieriincampania fra le collettività di immigrati che compongono il caleidoscopio della Campania multiculturale e multietnica prosegue, per focalizzare l’attenzione, questa volta, sulla presenza ivoriana nella regione.

La Costa d’Avorio è un paese dell’Africa Occidentale caratterizzato da una considerevole eterogeneità culturale, linguistica e religiosa che si ricollega alla grande varietà di gruppi etnici, ognuno dei quali si distingue per credenze, rituali e tradizioni ricche di miti. Fra questi i più numerosi sono gli Akan (che costituiscono il 32%), i Mande (che sono circa il 21,5%), i Gouro (il 15 % del totale) e i Kru (il 10 %). Ex colonia francese, la Costa d’Avorio ha ottenuto l’indipendenza il 7 agosto del 1960 ma ancor oggi permane l’influenza culturale ed economica della Francia ed una profonda instabilità politica, con guerre civili che hanno segnato e devastato la nazione anche nel corso del nuovo millennio. 

Il paese, la cui economia è prevalentemente agricola e basata sull’esportazione di cacao e caffè, è particolarmente interessato ai fenomeni migratori, sia interni, che vedono emigrare principalmente i giovani dalle regioni del Nord a quelle più ricche e sviluppate del Sud, che internazionali, verso i paesi europei. Questi ultimi flussi, che più di recente sono per lo più irregolari a causa delle politiche di chiusura delle frontiere, seguono principalmente due rotte: una prevede il passaggio per il Marocco, verso la Spagna, magari se si è in possesso di visto turistico, mentre l’altra, la più praticata, ma anche la più ardua e rischiosa, implica il passaggio per il deserto, la Libia e l’arrivo via mare sulle coste italiane. 

In Italia, gli immigrati provenienti da questo paese sono circa 32.065 e rappresentano lo 0,61% del totale (Istat, 01/01/2019). Quella ivoriana pertanto non è una delle collettività più numerose sul territorio, ma costituisce una presenza oramai stabile ed è fra quelle che hanno registrato un incremento considerevole negli ultimi anni (Istat, 2019). Nel decennio che va dal 2006 al 2016, i residenti originari di questo paese sono passati da 15.637 a 26.159 unità e si sono distribuiti in un maggior numero di comuni italiani. Nel 2017, inoltre, secondo i dati dell’O.I.M., sono circa 10.000 i migranti giunti in Italia che si sono dichiarati ivoriani e nel corso del 2018 vi è stato un aumento del 5,9% rispetto all’anno precedente (Istat, 2019). 

In Campania i migranti di origine ivoriana sono 2.595, lo 0,7% del totale della popolazione straniera, ma la regione si colloca al quinto posto fra quelle caratterizzate da una maggiore presenza di persone provenienti da questo paese. Accoglie, infatti, il 6% del totale nazionale dopo la Lombardia (29,3%), l’Emilia Romagna (12,3%), il Piemonte (11,4%) ed il Veneto (8,1%) (Istat, 01/01/2019). 

Riguardo la distribuzione per genere, vi è una prevalenza maschile. Le donne infatti, a livello nazionale, sono circa il 32%, mentre in Campania rappresentano solo il 15, 8% del totale (Istat, 01/01/2019). 

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Nella regione, inoltre, gli immigrati di questa nazionalità, si concentrano soprattutto nella provincia di Napoli, dove risiede il 50,6% del totale. Il 19,6%, invece, vive a Caserta l’1,5% a Benevento l’1,2% Avellino e solo lo 0,3% a Salerno (Istat, 01/012019).

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Il comune di Napoli, in particolare, ospita 452 residenti ivoriani, mentre nella sua provincia, una quota significativa si riscontra nei comuni di Giugliano (80), Acerra (52) e Afragola (49). Nella provincia di Caserta, invece, risiedono principalmente nei comuni di Castel Volturno (63), Caserta (43) e Mondragone (26) (Istat, 01/01/2019).

Stranieriincampania ha intervistato alcuni fra i principali referenti delle associazioni ivoriane assieme agli immigrati che vivono sul territorio da più anni che ci hanno aiutato a ricostruire le dinamiche e i mutamenti nel tempo di questa collettività nella regione. 

La presenza ivoriana è aumentata in maniera significativa soprattutto a partire dal 2011 in seguito alla crisi libica. “Venti anni fa” ricorda, infatti, Fatou Diako, presidente dell’Associazione Hamif  noi ivoriani eravamo pochissimi. Si lavorava e non ci vedevano troppo, ci vedevamo solo una volta al mese per le nostre riunioni. […] Con la crisi libica e dopo la morte di Gheddafi gli ivoriani che erano lì, sono stati costretti ad emigrare. Dal 2011 in poi sono arrivati in tanti, dalla Libia come richiedenti asilo […] Tutti gli alberghi al centro erano pieni di immigrati. Quando arrivavano la prima cosa che cercavano era un punto di riferimento, la loro comunità!”. 

Nel corso del tempo le caratteristiche della migrazione ivoriana sul territorio, come è emerso dalle interviste, sono mutate e c’è stato un incremento di donne e nuclei familiari. L’eterogeneità culturale e religiosa del paese di origine, inoltre, si ripropone anche in Campania dove l’etnia più significativa è quella Mandinga. Le differenze religiose, tuttavia, non rappresentano un problema, come ha raccontato Alima Tarorè, dell’associazione di Cardito, Afragola e Caivano, che ha ribadito “se c’è una festa religiosa i musulmani e i cristiani si scambiano gli auguri o si va a mangiare assieme. Qualche volta facciamo le feste di Natale assieme!” 

Da un punto di vista lavorativo, come la maggior parte degli stranieri, gli immigrati originari della Costa d’Avorio si inseriscono, in prevalenza, in settori caratterizzati da elevata precarietà e nelle fasce di economia informale. Gli uomini sono impiegati, spesso, come benzinai, muratori, in autolavaggi e in agricoltura, magari spostandosi stagionalmente in altre ragioni, per la raccolta, ad esempio, a Foggia. Si tratta di ambiti occupazionali caratterizzati, com’è noto, da considerevoli fenomeni di sfruttamento e dal fatto che la manodopera è, spesso, sottopagata. 

Un’altra attività diffusa fra immigrati di questa nazionalità è quella di “driver” in ambito commerciale, ovvero intermediari e guide per l’acquisto e l’esportazione di prodotti all’ingrosso dai negozi di Napoli, verso altre località europee, come la Francia, percependo una percentuale. 

Le donne, invece, sono impiegate in attività di assistenza e cura agli anziani ma anche come parrucchiere, nell’ambito della ristorazione e in estate, in attività autonome precarie, per esempio, per fare le treccine africane.  Non è semplice, tuttavia, per le immigrate riuscire a conciliare il lavoro con la gestione familiare e questo non facilita, per loro, la possibilità di lavorare. 

Le donne sono in difficoltà […] Ci sono molte donne immigrate che non riescono a lavorare. Io ho tante sorelle ivoriane che hanno affidato i loro figli alle famiglie italiane e sono rimasti con le famiglie italiane. Per le donne il lavoro è soprattutto quello di badante giorno e notte ma in questo caso non puoi avere una famiglia e questo è il problema principale che abbiamo!” racconta, a riguardo, Fatou Diako.

L’associazionismo svolge fra i migranti di questa nazionalità un ruolo particolarmente significativo. Fra le associazioni più importanti vi è l’Associazione ivoriana di Napoli, quella di Cardito Afragola e Caivano e quella che riunisce coloro che vivono nella provincia di Caserta. 

Queste realtà sono sorte con l’intento di fornire supporto ai propri connazionali in caso di necessità e al contempo, per riproporre, nel contesto migratorio, pratiche tradizionali legate, ad esempio, ai matrimoni o ai rituali della nascita, fra innumerevoli ibridazioni culturali. Importanti celebrazioni sono organizzate, poi, in occasione della Festa dell’indipendenza, il 7 agosto, che coinvolgono e fanno confluire a Napoli gran parte dei residenti ivoriani della regione. 

Diabate Adamà, vicepresidente dell’Associazione ivoriana di Napoli che è nata agli inizi del Duemila e nel tempo si è sempre più strutturata ed organizzata, a riguardo, afferma: “l’associazione è importante, perché possiamo aiutarci fra noi e perché anche quelli che arrivano non sanno dove andare”. L’associazionismo consente di “mantenere la nostra cultura” sostiene, invece Alima Traorè dell’associazione di Cardito, Afragola e Caivano, proseguendo “ad esempio, in caso di necessità, per mandare la salma, nel paese, alla propria famiglia. I funerali in Costa d’Avorio sono molto importanti e coinvolgono tutti i parenti”. 

L’identità ivoriana, in ogni caso, si sovrappone, più in generale, a quella africana, come si evince dall’esistenza di realtà associative che coinvolgono migranti di diverse regioni dell’Africa Occidentale. 

L’Associazione Donne Africane di Napoli, ad esempio, coinvolge molte immigrate di origine ivoriana. Stranieriincampania ha intervistato la sua presidente, Aminata Bamba, che ha ribadito come sia importante per le donne potersi incontrare e confrontare periodicamente. “Facciamo feste, ci sosteniamo a vicenda […] Noi abbiamo tanti problemi, non abbiamo qui la famiglia […]  Sentiamo la mancanza dei genitori, della famiglia e per questo vogliamo creare fra di noi questo senso di familiarità!”. 

La stessa Aminata proviene da un villaggio della Costa d’Avorio occidentale e prima di raggiungere l’Italia, nel 2007, ha vissuto diversi anni ad Abidjan, dove lavorava dopo aver terminato gli studi. Ha lasciato il suo paese in seguito alla guerra civile, ma non è riuscita ad ottenere l’asilo politico, così ha avuto modo di regolarizzare la propria condizione solo in seguito, con la sanatoria e come molte immigrate residenti sul territorio, è stata costretta, inizialmente, ad adeguarsi a svolgere l’attività di badante “notte e giorno”. 

Analogamente l’associazione Hamef, è nata nel 2012 per dare una risposta alle richieste e alle esigenze dei migranti ivoriani giunti a Napoli in seguito alla crisi libica, ma attualmente le sue iniziative sono rivolte a tutti gli stranieri ed anche, alle volte, ai napoletani. La sua presidente e fondatrice Fatou Diako, di origine ivoriana, è giunta a Napoli agli inizi del Duemila, dopo aver sposato un italiano ed il nome dell’associazione corrisponde alle iniziali dei suoi familiari, coinvolti in questo progetto fin da principio. Fra le attività svolte da Hamef vi è uno sportello legale, servizi di accompagnamento e orientamento sanitario per donne in gravidanza, in collaborazione con l’ambulatorio ginecologico dell’ospedale Villa Betania di Ponticelli, l’organizzazione di eventi interculturali e alcuni progetti di cooperazione internazionale in Costa d’Avorio di carattere formativo e più di recente, orientati alla costruzione di pompe idriche in un villaggio vicino Abidjan. A sostegno di quest’ultimo progetto è stato girato anche un documentario intitolato “Welcome to Abidjan” che racconta le condizioni di vita in Costa di Avorio. “Quando abbracci gli altri, abbracci anche te stesso!” Sostiene, a riguardo, Fatou, proseguendo: “Noi dobbiamo lottare per la gioventù africana perché stanno scappando e così l’Africa perde la sua ricchezza!” 

La Campania, inoltre, rappresenta per gli ivoriani un luogo di accoglienza ma al contempo, anche una località di transito, dal momento che molti di coloro che hanno regolarizzato la loro posizione o hanno ottenuto la cittadinanza hanno preferito emigrare in Nord Italia o in Francia. “Anche con la cittadinanza siamo considerati sempre come immigrati, non ci sono possibilità!” afferma, a riguardo, Fatou. 

Un segnale di stabilizzazione di questa comunità sul territorio campano, in ogni caso, è legato alla presenza di imprese etniche, fra cui alcuni negozi di parrucchieri e due ristoranti gestiti da migranti di questa nazionalità, che hanno sede a Napoli, nei pressi della stazione centrale. 

Stranieriincampania ha intervistato Chantal che, assieme alla madre, gestisce il ristorante “Mohaye. Specialità africane”. Il locale inizialmente era la sede dell’associazione “Mama Africa”, nata con l’obiettivo di riproporre la cultura e le tradizioni africane, fra cui anche quelle culinarie e questa attività è stata avviata, inizialmente, proprio dalla madre di Chantal che è una delle prime donne ivoriane giunte nella regione, circa trent’anni fa, dopo aver sposato un italiano. La clientela di Mohaye, ancor oggi, è soprattutto di origine africana, sebbene siano accolti tutti coloro che sono curiosi di assaggiare piatti e ricette tipiche della cucina dell’Africa Occidentale e della Costa d’Avorio, come il “foutou”, fatto con il platano.

Chantal si è ricongiunta alla madre quando aveva ventisette anni, dopo aver vissuto e studiato per un periodo di tempo ad Abidjan. Il suo può essere considerato un percorso migratorio di integrazione, poiché a Napoli ha conosciuto il suo attuale compagno, dal quale ha avuto un bambino che ha sei anni e frequenta la scuola italiana. Afferma infatti: “Io mi trovo bene a Napoli. Lavoro e abbiamo una nostra attività. Non è facile perché i tempi sono cambiati. Più passa il tempo è più è difficile! […] Ma noi stranieri che viviamo qua dobbiamo cercare di integrarci. Se lasci l’Africa, non devi dimenticare la tua Africa ma devi cercare di integrarti, anche imparando la lingua […]  Quando arrivi in un luogo devi cercare di rispettare le leggi, di integrarti. Se tu cerchi di integrarti le cose andranno bene!”

L’esperienza di Chantal non è unica. Non mancano, infatti, cittadini ivoriani che hanno esperienze di integrazione e radicamento sul territorio, magari con uno sguardo ancora rivolto all’Africa. Dalle loro parole emerge come Napoli e la Campania possano essere considerati territori accoglienti. 

Diabate, ad esempio, vicepresidente dell’associazione ivoriana di Napoli, giunto in Italia nel 2003 attualmente lavora in un negozio di alimentari ed afferma: “Napoli è una città di accoglienza, il mio datore di lavoro mi considera come un suo figlio […] io non posso dire male di questa città nessuno mi ha mai mancato di rispetto!” 

Fatou Diako definisce se stessa e i suoi due bambini “ivoro-napoletani”, ribadendo a Napoli io sono stata accolta bene […] Anche se io non ho perso la mia cultura e anche i miei figli imparano anche la mia cultura. Ho sempre abbracciato le due culture, dobbiamo avere sempre il possesso della nostra cultura!” 

Dalle interviste, tuttavia, si evince come permangano numerose problematiche assieme a forme di discriminazione in diversi ambiti, come quello abitativo o lavorativo, legate, alle volte, anche al colore della pelle. Negli ultimi anni, inoltre, rispetto al passato, sono aumentati i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti dei migranti di origine africana, come è emerso nel corso delle interviste. 

Emblematiche, ad esempio, le parole di Chantal, che ha ribadito “Prima c’era un po’ di considerazione, adesso tutti pensano che gli africani sono venuti qua con la nave. No mi dispiace! Io sono venuta con l’aereo! C’è un po’ di pregiudizio! Ma non è colpa loro […] Io dico che non è facile per i napoletani e non è facile per noi stranieri… Non è facile. Io non posso giudicare!”

Particolarmente difficile e complessa può essere poi, la condizione di coloro che sono arrivati più di recente, con i nuovi flussi migratori. 

In seguito all’approvazione del Decreto Salvini che ha abolito il permesso per motivi umanitari, infatti, è divenuto estremante difficile per coloro che arrivano via mare, poter regolarizzare la propria situazione, sebbene siano stati vittime di abusi e violenze durante il tragitto migratorio e nonostante abbiano intrapreso percorsi di integrazione sociale e lavorativa. In questo caso, come ha ribadito Fatou “i ragazzi sono persi! Anche se sono inseriti! Questo è il problema reale in questo momento. Non avere il permesso di soggiorno, non permette proprio di andare avanti con il lavoro, con l’integrazione!”

In riferimento alle criticità del sistema di accoglienza in Italia, poi, sono significative le parole Diabate che sostiene: “Quando i ragazzi arrivano nei centri di accoglienza, spesso dopo mesi o dopo anni sono sempre nella stessa condizione… Rimangono là per mangiare, per dormire, ma sono come un uccello nel nido che apre la bocca solo per mangiare. Ci vogliono ali per poter volare, per sentirsi liberi… e le ali sono solo i documenti! Così si può tornare a vedere la famiglia! Conosco ragazzi che sono qua da tre o quattro anni e non possono fare nulla, non possono andare da nessuna parte, dopo aver attraversato l’infermo nel deserto! Così come tante donne vittime di violenza!”

In Costa d’Avorio, inoltre, sebbene la guerra civile sia ufficialmente terminata, le persone continuano a “morire” e a “scappare” per ragioni politiche e la situazione resta “drammatica”, come hanno evidenziato gli immigrati intervistati, che temono possa ulteriormente degenerare in occasione delle prossime elezioni presidenziali, nel 2020. 

I ricordi della guerra civile possono essere in alcuni casi estremamente dolorosi, come nel caso di Alima, giunta in Italia nel 2007 per ricongiungersi al marito, che ha raccontato “Io ero in Costa di Avorio quando la guerra è iniziata […] Sono morti tanti anche della mia famiglia. Abbiamo lasciato le nostre case, per quasi un anno siamo andati in un’altra città, in campagna. Abbiamo camminato a piedi dal mio villaggio […]  Mio nonno era malato e lo abbiamo portato su una carriola, a piedi. Questo non si può dimenticare! Dormivamo per strada, eravamo tanti! Prima di venire qua ho fatto due anni di università. Poi le università hanno chiuso per la guerra.”

Il percorso migratorio di Alima, tuttavia è stato un percorso di successo, poiché ha avuto tre figlie in Italia ed è comunque riuscita a terminare gli studi universitari, laureandosi in Scienze Sociali, con una tesi sulle tradizioni culturali del suo paese. 

Nel nostro percorso fra i migranti di questa nazionalità, abbiamo incontrato, al ristorante Mohaye, Sibiri Andre Konatè, un ragazzo giunto in Italia circa tre anni fa e residente a Formia che, tuttavia, viene spesso nel capoluogo campano per assaggiare i piatti africani e risentire i sapori e i profumi della sua terra. 

Soffermare lo sguardo sulla collettività ivoriana, così, ci ha consentito di mettere in luce alcune fra le più attuali contraddizioni, problematiche e dinamiche migratorie e in conclusione, appaiono particolarmente significative le paro

 le della nostra amica Alima, che ha ribadito “É importante che tutti, anche le scuole si impegnino per l’integrazione, ma per fare questo ci devono essere anche i volti degli immigrati, dobbiamo partecipare anche noi stranieri e raccontare la nostra storia!”