Dal Senegal all’Italia: il grande sogno di Malick

 

 

Malick Fall è un ragazzo senegalese di 32 anni, lo avevamo conosciuto al corso di Citizen Journalism organizzato nell’ambito del progetto Impact Campania, durante il quale aveva realizzato un video per denunciare le enormi difficoltà che affrontano i cittadini stranieri nell’ottenere il permesso di soggiorno. Ad un anno di distanza lo abbiamo incontrato per farci raccontare come ha trascorso quest’anno particolare.

Malick è una persona piena di interesse, a colpirci di lui era stata la determinazione nell’affrontare il corso e, conoscendolo meglio, abbiamo scoperto il suo grande impegno sociale e politico per sostenere i più deboli. Da alcuni anni, infatti, Malick fa parte del Movimento Migranti e Rifugiati di Napoli e frequenta assiduamente l’Ex Opg “Je so pazzo”, un bene sottratto all’abbandono in cui un gruppo di persone si mobilita per lanciare percorsi di mobilitazione a partire dalle esigenze della popolazione.

 

Ciao Malick, benvenuto su Stranieriincampania, iniziamo proprio chiedendoti perché hai deciso di partecipare al corso di Citizen Journalism?

Perché io riconosco l’importanza del lavoro dei giornalisti, è una cosa che mi porto da piccolino, da quando mia nonna durante il telegiornale ci diceva che nessuno doveva parlare. Ho partecipato al corso per imparare a raccontare il mio passato, ma anche le mie aspettative e il mio futuro. Io credo che alcuni giornali nascondono le cose più importanti che servono per raccontare il mondo e le persone, per questo è importante che i migranti possano raccontare il loro punto di vista e quello che hanno vissuto. Il corso mi ha fatto capire che raccontarci non è facile, ma è necessario. Non pensiamo più con i nostri cervelli e ci lasciamo prendere dalla velocità con cui si muove il mondo oggi, senza fermarci a guardare gli altri come vivono e cosa fanno.

Tu sei molto attento agli altri, infatti sei un’attivista del Movimento Migranti e Rifugiati di Napoli e dell’Ex Opg…

Sì ho iniziato, e continuo ancora adesso, con l’Ex Opg. Li ho conosciuti all’inizio, quando mi hanno aiutato a risolvere un problema con la residenza, perché il proprietario di casa non voleva firmare la documentazione. Così ho conosciuto uno dei volontari, Saverio, che è venuto con me e mi ha aiutato a far capire alla proprietaria di casa come regolarizzare tutto. Da quel momento ho iniziato a frequentare anche io questo spazio e loro mi hanno chiesto se volevo dare una mano come mediatore, visto che parlo diverse lingue. Così, ho iniziato una volta a settimana facendo il mediatore allo sportello e all’ambulatorio medico, organizzato sempre da loro, dove chi non ha le possibilità può farsi visitare gratuitamente. Dopo poco ho fatto amicizia, ho sentito la loro fiducia e mi hanno aiutato a trovare lavoro.

Partecipi anche ad altre attività?

Sì, insieme agli altri volontari dell’Ex Opg facciamo una sorta di controllo popolare, che consiste nello girare nei centri di accoglienza per capire quali problematiche affrontano i migranti e nel caso facciamo una denuncia e ci organizziamo per portare i documenti in Prefettura. L’accoglienza è una cosa importantissima e in alcuni casi mancano cose fondamentali come igiene e cibo. Purtroppo quest’anno non siamo riusciti a farlo perché ci sono tanti problemi ad accedere all’interno. Durante la pandemia i ragazzi si sono occupati di raccogliere e distribuire beni di prima necessità, io purtroppo non l’ho potuto fare perché ero bloccato a Vico Equense con il lavoro.

Cosa ti spinge a farlo?

Io sono partito con l’aereo, con una persona che mi è venuta a prendere e mi ha portato a casa, purtroppo non è così per chi viene da terra o dal mare che quando arriva qui si trova senza punti di riferimento. Avere fiducia e dare fiducia è la cosa più difficile, ma la fiducia mi ha dato la possibilità di trovare una casa e un lavoro.

Che lavoro fai adesso?

Adesso lavoro in un caseificio e poi faccio anche il mediatore culturale. Due lavori che non avevo mai fatto prima, è una cosa bella, in particolare quando parli di mozzarella a Napoli tutti cambiano faccia. Ma il lavoro che vorrei fare è il saldatore, perché è quello che ho fatto per otto anni e che ho iniziato a fare in Senegal dopo 4 anni di formazione. Poi sono partito per l’Europa con un visto, la prima idea era quella di stare in Francia, anche perché lì non avevo problemi di lingua che è una delle cose più importanti. Devo essere sincero: non avevo mai pensato all’Italia. In Francia potevo comunicare in autonomia, non avevo bisogno di qualcuno che mi accompagnasse ovunque perché non capivo. Poi però i miei cugini mi hanno detto che in Italia c’era più accoglienza e anche se non capivo la lingua, avrei avuto più opportunità. Poi da Bologna ho sentito l’altro mio cugino che vive a Napoli, mi ha spiegato che loro facevano i venditori ambulanti e giravano diversi posti in Campania per partecipare a fiere e mercati. Dopo un mese a Napoli ho imparato il napoletano senza neanche saperlo, prima ancora dell’italiano, perché tante persone mi parlavano solo in dialetto. Mi ricordo che una volta sono andato in Calabria, all’isola di Caporizzuto, e volevo comprare una ricarica per il telefono e ho detto “Uè uagliò come stai?” e lui mi ha detto “ ah tu sei napoletano, che ci fai qua?”. In quel momento ho realizzato che in Italia c’erano lingue diverse che non puoi parlare ovunque.

Qual è il tuo primo ricordo di Napoli?

Mi ricordo che sono arrivato a Napoli un venerdì, intorno alle 2 del pomeriggio, venivo dalla Francia passando per Bologna e mi sono chiesto in che posto fossi finito. Di solito quando vieni da un altro posto aspetti che qualcuno ti accompagni in giro per conoscere la città, poi mi sono detto “sono un migrante c’è voluta tanta forza per arrivare qui e non ha senso restare in casa”. Mi ricordo che era estate e la domenica sono andato a mare, a Licola,  perché ero curioso di capire come si comportava la gente qui. La prima cosa che ho notato diversa dal Senegal erano i bambini, anche piccolissimi, che i genitori già portavano in acqua. Dove sono cresciuto i bambini non si portano a mare, aspettiamo che inizino a camminare. Non voglio dire che sia una cosa negativa, è stato un momento in cui ho pensato: ma allora si può fare!  Il mio primo pensiero è stato che volevo restare qui, anche se chiaramente ho avuto diversi problemi con la lingua all’inizio. Napoli mi ricorda un po’ l’Africa, come modo di accogliere e di fare. Dopo qualche giorno sono andato al mare a Salerno, non avevo ancora chiara la geografia delle province e della regione, mi sembrava di essermi spostato di poco, ma ho già avvertito una differenza anche nell’organizzazione delle strutture e nel comportamento delle persone.

Invece, come hai iniziato il lavoro di mediatore?

Ho iniziato e continuo a farlo come volontario, perché posso dare una mano a tutti quei ragazzi che sono arrivati qua e non riescono a comunicare. Come ti dicevo, quando sono arrivato facevo l’ambulante la mattina, andavo a scuola il pomeriggio e la sera facevo il volontario per dare una mano a queste persone. L’idea di fare il mediatore mi è venuta in Calabria, perché come ambulante d’inverno lavoravo in Campania e d’estate in Calabria. A Riace, un giorno un amico mi dice che c’era un suo amico che lavorava nei campi e il datore di lavoro aveva dei problemi a comunicare con i ragazzi che lavoravano con lui. Allora sono andato due settimane facendo da traduttore tra il proprietario e i ragazzi.

Cosa ti piacerebbe fare?

Mi piacerebbe girare tutto il mondo, vorrei vedere altri paesi e conoscere altre culture. Sono una persona a cui piace studiare la storia e già quando stavo a scuola, studiando la seconda guerra mondiale, sentivo parlare dell’Italia, della Germania e mi immaginavo come potevano essere. Quello che mi ferma è la responsabilità, io sono il primo figlio e nel mio Paese ci sono le mie sorelle e i miei fratelli che ancora vanno a scuola e hanno bisogno di una mano. Vorrei che i sacrifici che ho fatto io non siano costretti a farli anche loro. Io sono arrivato in Italia a 24 anni nel 2013 e non è stato facile, avevo chiesto il permesso di soggiorno nel 2008. Il fratello di mio padre aveva fatto immigrazione e mi diceva che dovevo andare fuori casa per diventare un uomo, ma mia madre non voleva. Come tutte le mamme mi diceva “se stai bene qua che vai a fare in altro posto”

La senti la tua famiglia?

Sì sempre, loro stanno seguendo anche la questione del Covid e mia madre è molto preoccupata per me, perché arrivano notizie di quello che sta succedendo in Italia. Ho provato a spiegarle che sicuramente sto meglio di loro, ma non mi crede e continua a preoccuparsi. In Senegal, il Covid è preoccupante solo nella capitale, nel resto del Paese ci sono pochissimi casi. Io vengo da una località del Senegal che è molto bella e la conoscono tutti perché è una meta turistica, si chiama Mbour Saly, ci sono anche molti italiani che hanno villaggi turistici e alberghi. Infatti chi li conosce mi chiede “cosa ci fai qui in Italia quei posti sono stupendi?”, questo è vero ma sono belli per i turisti, la situazione di chi ci vive è un po’ diversa.

Cosa ti manca del Senegal?

Sicuramente la famiglia, mia mamma e ho lasciato mio figlio quando aveva solo due mesi che adesso vive a casa con i miei genitori. Non sono ancora tornato in Senegal, sarei dovuto andare a febbraio, ma poi è successo quello che è successo. Un’altra cosa che mi manca sono proprio i bambini della mia città, vicino a dove abitavo ce n’erano tantissimi, spesso mi fermavo con loro per insegnargli delle cose e per questo mi venivano dietro, stavano sempre con me, mi seguivano fino a casa. Infatti non potevo uscire di casa a mani vuote, portavo sempre delle caramelle o qualcosa da dargli e appena mi vedevano, mi chiedevano “Malick dove vai? Posso venire pure io?”. Questa è una cosa che mi manca tantissimo perché qui in Italia se vedi un bambino per strada non puoi neanche avvicinarti perché c’è molta diffidenza. Al contrario, se un africano esce con suo figlio piccolo tutti si avvicinano e vogliono toccarlo.

Cosa ti viene in mente quando pensi al Senegal?

Uno dei motivi per cui faccio tanti sacrifici per lavorare è perché ho un grande sogno, quello di aprire una scuola nel villaggio dove sono cresciuto con mia nonna, la madre di mia madre. Mi piace pensare che i bambini, un domani, possono pensare che Malick ha fatto questo per il loro futuro. Questo è il mio grandissimo sogno: finanziare questo progetto per questo villaggio. Così un domani magari anche mio figlio può dire: il mio papà ha fatto questo.

 

24 novembre 2020