La Libia dei libici, tra guerra e coronavirus: storia di un ricongiungimento mai avvenuto
Suad Ellaba è un’artista libica che si è trasferita in Italia nel 2014 per continuare gli studi e arricchire le sue conoscenze. Avevamo già parlato di lei in un articolo dove ci aveva raccontato il suo percorso e la passione per l’arte. Oggi la incontriamo in una nuova veste, quella di reporter. Suad, infatti, ha partecipato al corso di Citizen Journalism realizzato da Traparentesi Onlus in collaborazione con l’associazione Kosmopolis nell’ambito del progetto Impact Campania. Aiutata dai tutor del corso, la poliedrica artista libica ha realizzato un breve video reportage in cui racconta il travagliato viaggio della madre e delle sorelle, dalla Libia alla Turchia, per riuscire ad ottenere i documenti per arrivare in Italia. Si parla molto della drammatica situazione che vivono i migranti in Libia, ma molto poco si conosce la condizione di chi in quel Paese è nato e cresciuto.
Benvenuta su Stranieriincampania, puoi raccontarci come nasce l’idea di questo video?
Ho fatto questo video perché penso che sia un argomento molto grave oltre che molto triste per me, visto che riguarda la mia famiglia. Avevo seguito il corso di Citizen Journalism che mi ha aiutato tanto per risolvere problemi tecnici. Quando abbiamo fatto la riunione con tutti i partecipanti per decidere gli argomenti, io ho proposto questo video perché pochi italiani sanno che anche gli stessi libici hanno problemi a venire qui in Italia. Quel giorno c’era con noi anche Maurizio Torrealta, un giornalista molto importante. La mia idea è stata approvata, così sono partita per la Turchia e, una volta arrivata, mi sono messa in contatto con gli organizzatori del corso che mi hanno seguito a distanza. Purtroppo quando siamo andate a fare il visto non ho potuto riprendere perché è vietato per questo, quando sono uscita, ho raccontato tutto quello che mi avevano detto.
Il video, dunque, racconta tutte le difficoltà che ha avuto tua madre per chiedere il visto. Proviamo a ricostruire la situazione
All’inizio abbiamo provato a richiedere il visto per l’Italia in Tunisia, ma anche lì ci hanno detto che era necessario avere un lavoro, un contratto di casa e un conto in banca. Mia madre ha 80 anni, chiaramente non può lavorare, ha solo un piccolo conto in Libia. Allora lei e le mie sorelle hanno voluto provare ad andare in Turchia dove hanno affittato una casa, ma le mie sorelle non hanno trovato un lavoro stabile, solo una ha lavorato come insegnante per una scuola libica che poi ha chiuso. Dopo qualche mese i soldi sono finiti, anche se io ho provato ad aiutarle, ma comunque i miei soldi non bastavano per tre persone, poi mia madre ha bisogno di cure mediche e medicine che hanno un costo.
Così hai deciso di raggiungerle in Turchia?
Sì, sono andata anche io per provare ad ottenere il visto per l’Italia. Ho chiamato un mio amico, un avvocato siriano che parla turco perfettamente. Insieme abbiamo preparato tutte le carte e poi mi ha accompagnato in questa agenzia che si occupa della documentazione. Naturalmente ho dovuto pagare anche l’avvocato, ma era necessario perché lì tutti parlano turco, un po’ di inglese, ma nessuno parla italiano anche se non capisco il motivo visto che si occupano specificamente di visti per l’Italia. Una volta che avevamo pronto tutto siamo tornati su appuntamento e quando siamo entrati ci hanno detto subito che il visto non potevano darcelo. Fortunatamente abbiamo trovato una persona sincera che ci ha detto che, anche se avevamo fatto tutti i documenti, il visto non ce lo avrebbero dato, perché dovevamo avere un lavoro, una casa e un conto in Turchia. Dico fortunatamente, perché avremmo dovuto pagare per la richiesta e almeno abbiamo risparmiato questi soldi. Già avevamo speso tanto per fare il permesso turistico per entrare in Turchia.
Come si è conclusa la vicenda?
Sono dovute tornare tutte in Libia perché non riuscivano più a sostenersi in Turchia. Sono tornate un paio di mesi prima che arrivasse il coronavirus, ma appena tornate hanno avuto una brutta sorpresa, infatti, hanno dovuto affittare un’altra casa perché nella zona di Tripoli in cui abitano c’è la guerra e buona parte della città è rimasta senza corrente, non c’è nessuna possibilità di vivere normalmente.
La Libia prima rappresentava uno dei paesi più floridi dell’africa e per questo era considerata una meta ambita dove andare anche per gli abitanti degli stati limitrofi, poi qualcosa è cambiato. Cosa puoi dirci dell’attuale situazione in Libia?
Una volta la Libia era tranquilla, un bel posto dove vivere. Purtroppo adesso, anche se la guerra dovesse finire ci vorrà del tempo perché tutto torni alla normalità. Io ho vissuto in Libia fino al 2014, anno in cui mi sono trasferita in Italia e l’ho vista cambiare nel tempo. Quando c’era Gheddafi era tranquilla, avevamo tutto quello che ci serviva, era più semplice trovare un lavoro, non solo per i libici ma anche per gli stranieri, ecco perché in tanti arrivavano nel paese alla ricerca di una vita migliore. Molti di quelli che arrivano oggi pensano che sia ancora così. La Libia è un paese molto ricco perché ha giacimenti di petrolio e miniere di metalli preziosi, però questa ricchezza non è distribuita nella maniera corretta. Allora dopo il 2011, abbiamo pensato che la Libia potesse cambiare in meglio, poi sono arrivati tanti paesi stranieri che se ne sono approfittati. Mantenere lo scompiglio fa comodo a molti, perché possono gestire i loro affari. Questo è il problema. Come raccontavo prima, molte zone sono senza energia elettrica, gli ospedali sono in crisi ed è difficile trovare un medico, anche rivolgendosi a strutture private. Le scuole aprono una volta ogni tanto e spostarsi per le strade è pericoloso, soprattutto per una donna sola. Dopo il 2011 non c’è più sicurezza.
Perché sei venuta in Italia?
Sono arrivata in Italia per studiare, avevo una borsa di studio per un dottorato poiché già collaboravo con l’università in Libia. Qui ho collaborato con un’università in Calabria e poi in Campania. Contemporaneamente ho continuato a studiare scultura, cinema e fotografia, dovevo fare degli esami quando poi è scoppiato il coronavirus. La mia vita qui mi piace molto, è tranquilla. Per il mio campo, quello artistico, l’Italia rappresenta una vetrina importante. Anche le persone sono molto gentili con me, gli italiani mi hanno aiutato molto, le persone non le leggi. Poi ho avuto la fortuna di arrivare subito al Sud dove la gente è molto “calda”, come gli arabi.
Per quale motivo hai deciso di partecipare al corso di Citizen Jornalism?
Io amo molto l’arte e ho voglia di conoscere tutti i linguaggi anche quello video. Ho seguito anche in Turchia un corso per il montaggio e ho fatto anche un video pubblicitario con i miei quadri. Il corso mi serviva anche per questo e poi devo dire che è stato un momento molto bello e ci ha fatto capire il lavoro che c’è dietro ad un video giornalistico. La cosa che mi dispiace è che a causa del lockdown non siamo riusciti a fare una festa finale. L’importante è che stiamo tutti bene, poi ci sarà il tempo per fare tutto.
Se me lo consenti vorrei lanciare un messaggio affinché si parli di più dei libici che stanno attraversando questa guerra civile. Vorrei che si parlasse delle donne, degli anziani e dei bambini. Oggi se vai in Libia senti i bambini parlare di guerra invece di parlare di giochi o di cose divertenti, li senti discutere di cose più grandi di loro. Poi, come se non bastasse è arrivato anche il coronavirus. Io ho paura per la mia famiglia, perché non ci sono ospedali attrezzati, mancano i disinfettanti, le mascherine sono carissime e le persone non hanno soldi.
Napoli, 6 luglio 2020