Intervista a Nicola Brunialti, autore de Il paradiso alla fine del mondo

Intervista a Nicola Brunialti, autore de Il paradiso alla fine del mondo

Il romanzo di Nicola Brunialti, Il paradiso alla fine del mondo (Sperling&Kupfer 2019), racconta il difficile viaggio di Teresa, una ragazza di 16 anni, da un Paese devastato da guerre, colpi di Stato e miseria verso un continente che può garantirle un lavoro e una vita più serena. 

Si tratta di una vicenda purtroppo molto comune, se non fosse che Teresa abita in Germania, è di origini italiane e aspira a raggiungere l’Africa: Nicola Brunialti immagina infatti un mondo diverso dal nostro, in cui negli anni Venti del Duemila l’Europa sia ridotta alla fame e la ricchezza si concentri nei Paesi africani. Tramite questa idea apparentemente semplice, il delicato tema della migrazione è trattato da un punto di vista nuovo, che permette di cogliere e osservare con lucidità diversi suoi aspetti. 

Attraverso la forma narrativa del romanzo racconti il fenomeno della migrazione in modo dettagliato e molto ben documentato. Quali sono state le tue fonti? Hai intervistato dei migranti prima di cominciare a scrivere?

Documentarmi è stato il primo passo. Ed era fondamentale farlo in modo molto approfondito, perché il viaggio, seppur “romanzesco”, rispecchiasse la realtà nel modo più sincero possibile. 

Per documentarmi ho scelto molte strade diverse: ho letto libri, scritti da persone che avevano compiuto il viaggio in prima persona, e saggi e articoli di giornale che ho raccolto anche sul web. Molto utile è stato anche guardare interviste e servizi televisivi. Ma molto più utile è stato, ovviamente, parlare con le persone in carne ed ossa, migranti soprattutto africani, che mi hanno raccontato la loro esperienza, anche nei minimi particolari. La maggior parte, se devo dire la verità, li ho incontrati per strada, mentre chiedevano qualche spicciolo fuori da un supermarket o un bar. E ogni volta, dopo un breve scambio di saluti, ho cercato di approfondire con loro la conoscenza, perché niente è più efficace di un racconto in prima persona: ricordo soprattutto Innocent e Janine, entrambi nigeriani. 

Nel libro riporti o prendi spunti da alcuni episodi realmente accaduti ?

Sì, sono assolutamente tutti episodi realmente accaduti. Io ho solo fatto in modo che avessero senso all’interno della mia storia. Ma tutto quello che si legge nel mio libro ha una fonte narrativa reale. Anzi, alcune cose le ho eliminate perché erano, addirittura, troppo crude e forse avrebbero posto l’accento su qualche aspetto che non volevo prendesse il sopravvento sugli altri.

A un certo punto uno dei personaggi fa un’affermazione dalla valenza politica piuttosto forte: i paesi ricchi “fanno solo finta” di non voler accogliere persone provenienti da Paesi poveri per poterli mantenere in una condizione di illegalità e renderli più sfruttabili. Questo punto di vista porta a una lettura meno banale e più lucida delle polemiche che ci sono intorno all’accoglienza dei migranti. 

Credo sinceramente che quello dei migranti sia un falso problema, un problema a cui non si vuole dare soluzione. Sono così tante le implicazioni economiche che girano intorno al mondo dei nuovi poveri che non conviene a nessuno trovare una soluzione realistica al problema. A nessuno tranne gli stessi migranti, ovviamente. C’è tutta un’economia che si bloccherebbe se non ci fosse più gente che scappa da un giorno all’altro: basti pensare che una barca di quelle usate dagli scafisti libici viene pagata 15 o 20.000 dollari. Considerando che ognuno dei passeggeri ne paga anche 3.000 e che sulla barca salgono fino a duecento persone, fate un calcolo del valore economico di questi “passaggi”. Per non parlare poi dello sfruttamento nei territori in cui arrivano, del caporalato e della vera e propria schiavitù a cui vengono costretti. Ma ancora di più, è così evidente il fatto che, perché il nostro lato fortunato del mondo continui a godersela come facciamo, è necessario che l’altra parte patisca. È per questo che noi continueremo a sfruttarli e a negare di farlo. Ma basta guardare una cartina geopolitica della prima guerra mondiale per accorgersi che non c’era uno Stato africano che non fosse sotto il dominio di uno Stato europeo. Insomma, più sono clandestini più sono senza diritti, senza voce. E questo, ci torna molto molto utile.

Nel suo percorso migratorio, Teresa si confronta con crudeltà e cinismo, ma anche con personaggi positivi e generosi. Ci sono dei modelli reali a cui ti sei ispirato?

Nel mondo dei “passatori”, degli “schiavisti”, dei “commercianti di uomini” è impossibile trovare figure positive: sono quasi tutti persone senza scrupoli che hanno trovato un nuovo modo di guadagnare alle spalle dei poveri. È invece possibile trovare figure positive nel modo delle ONG e delle organizzaizoni religiose, persone che si danno da fare per dimostrare al mondo che esiste ancora la pietà e l’empatia per il prossimo. Sono mondi che spesso viaggiano in parallelo quello della chiesa e quello delle associazioni non governative, ma che in molti casi si incrociano creando dei veri e propri miracoli di umanità.

Il campo profughi dell’ONU è invece descritto come un luogo di corruzione e maltrattamenti. Quanto di vero c’è dietro il quadro che delinei? E’ una denuncia di fatti reali?

Sì, ho visto interviste e letto diversi articoli che parlavano apertamente di episodi di corruzione anche all’interno dei campi. È ovvio, che dove ci sono dei disperati, ci sono persone pronte ad approfittarne. E credo che un campo profughi non faccia eccezione.

I migranti sono speso inermi e rassegnati di fronte alla crudeltà dei “passatori” e delle persone che hanno in mano i loro destini, ma possono ribellarsi ed essere anche molto violenti. Di fronte alla loro violenza, giustificata in parte dalle sofferenze patite, in qualche modo sospendi il tuo giudizio?

Quelle in cui si trovano i migranti sono spesso situazioni estreme, situazioni di vita o  di morte. È impossibile per noi capire davvero cosa voglia dire. Per questo credo di non avere il diritto di commentare. Perché io non lo so cosa voglia dire vedere i propri familiari torturati e uccisi, le proprie figlie violentate, i propri figli annegati. Io non me lo posso nemmeno immaginare che dolore sia. Per questo il giudizio non può che essere sospeso.

La protagonista del tuo libro è una donna che racconta la propria vicenda in prima persona, a distanza di 26 anni; in generale tutto il libro vede prevalere personaggi femminili. Quali sono i motivi di questa scelta? Hai avuto difficoltà nell’immedesimarti in un personaggio femminile?

La storia parte da un giorno del 2050 in cui una donna sta aspettando che sua figlia partorisca. Una scelta precisa, fatta perché il romanzo che è, a tratti, duro e disperato, non fosse però senza speranza. Per questo ho scelto una protagonista femminile: perché fosse lei ad aspettare quella nascita di una nipote, perché volevo una nonna, con tutti i suoi sentimenti di “donna” che credo siano, in casi come questi, più potenti di quelli di un uomo. Perché una donna conosce cosa voglia dire “partorire”. 

Ecco, calarmi nei panni di una donna di 42 anni che sta per diventare nonna e che parla di se stessa a 16 anni, non è stato per niente facile. Per questo, e per altri motivi, il lavoro di scrittura è durato due anni. Ma devo dire, sono molto soddisfatto: tutti i commenti che ho ricevuto su questo argomento sono assolutamente positivi. Vuol dire che in me c’è una parte femminile a cui ho saputo pescare per essere credibile. Soprattutto per la Teresa adolescente, alle prese con il primo amore e le prime esperienze sessuali. Quella è stata la parte più complicata.

Teresa vive un’avventura difficile e terribile, ma ha anche i problemi e i pensieri di ogni sedicenne e non mancano nel romanzo momenti comici e romantici. Pensi che questo elemento possa aiutare a guardare ai migranti in modo meno distratto e più empatico?

Credo che gli adolescenti si somiglino tutti, indipendentemente dalla parte del mondo in cui si trovano e dalla situazione politica. Ci sono caratteristiche che li accomunano. E su quelle mi sono soffermato per essere credibile anche di fronte ad un pubblico di lettori dell’età di Teresa. Ci sono nell’età dell’adolescenza molti momenti comici, proprio perché quella è un’età di passaggio in cui neanche i ragazzi sanno bene chi sono. Sono così irrisolti e allo stesso tempo così sicuri di sé che è normale che ne nascano diverse situazioni anche più leggere.

Nel personaggio di Greta, la bambina di sette anni che gira da sola per l’Europa diretta in Africa, si riassume il fenomeno dei minori non accompagnati, uno dei capitoli più delicati e dolenti all’interno del fenomeno migratorio. Esistono davvero casi come quello di Greta?

Sono moltissimi i casi di minori che viaggiano da soli. E credo che proprio Greta sia il cardine su cui gira il mio racconto: il vero punto focale del romanzo. Il ribaltamento del punto di vista serviva soprattutto a questo: cosa succederebbe se al posto di un migrante africano ci fosse nostra figlia di sette anni, nostra nipote? È una cosa che non riusciamo neanche ad immaginare. Che disperazione può convincere due genitori a mettere su una barca una bambina di sette anni da sola? Il peggio non è che loro non sanno cosa succederà una volta che la figlia sarà dall’altra parte. Loro non sanno nemmeno se la loro figlia ci arriverà dall’altra parte! Ma come facciamo a capire un gesto così estremo? 

Per questo motivo il libro si apre con alcuni versi della poesia di Warsan Shire: «Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra». 

E per lo stesso motivo il libro è dedicato ad Alan Kurdi, nato il 3 giugno del 2013 a Kobanê e morto il 2 settembre del 2015 nel Mar Mediterraneo. Alan Kurdi è il bambino con la maglietta rossa che tutti abbiamo visto morto, con il viso rivolto sulla sabbia.

È soprattutto a tutti i bambini che non ce l’hanno fatta che il mio libro è dedicato.  

Dopo aver scritto libri per bambini o per ragazzi, ti sei cimentato in un romanzo adatto a tutte le età. Hai però in mente il tuo lettore ideale, un interlocutore a cui ti sei rivolto mentre lavoravi al romanzo? La presenza di particolari crudi può essere un deterrente per lettori più giovani o pensi che sia giusto che i ragazzi siano al corrente di quanto succede?

In questo caso i mie lettori sono tutti i lettori da quattordici a cento anni. È ovvio che alcuni fatti narrati nel romanzo, fondamentali per rendere giustizia a chi quel viaggio lo compie davvero, non sono adatti ad un pubblico di bambini. Per loro ho scritto “Saturnino, l’alieno venuto dalla Terra”, un romanzo che ha come tema lo stesso del libro per adulti, la migrazione, ma trattato in un modo del tutto diverso. Vi basti pensare che la storia di Saturnino narra di un ragazzino di 12 anni costretto a seguire la famiglia, in cerca di lavoro, su un altro pianeta, lontanissimo dalla Terra. Un pianeta in cui sono tutti verdi! Per questo il povero Saturnino si troverà ad essere l’unico rosa della scuola. Insomma, un mondo ribaltato anche quello, un modo per far capire ai nostri ragazzi la fatica di essere loro, per una volta, i diversi, gli strani.

Il testo ha caratteristiche molto “cinematografiche”: ti piacerebbe che fosse adattato per il cinema o per la televisione? 

A dire la verità, mentre lo scrivevo, immaginavo anche di “vederlo”. E forse questo un po’ si percepisce. Ovviamente mi piacerebbe moltissimo che ne venisse fuori un film o una serie. E stiamo proprio lavorando perché questo succeda…