I profughi non sono clandestini: il Tribunale di Milano condanna la Lega per discriminazione razziale

I profughi non sono clandestini: il Tribunale di Milano condanna la Lega per discriminazione razziale

 

 

I profughi non sono clandestini e definirli tali “non è libera manifestazione del pensiero”. E’ quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano che conferma la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva condannato la Lega per discriminazione razziale.

 

La vicenda risale ad aprile 2016 quando l’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano, aveva disposto il trasferimento di 32 richiedenti asilo nel comune di Saronno. La decisione di accogliere i profughi, nel centro della Caritas gestito dalle suore, era stata del Prefetto di Varese, Giorgio Franco Zanzi. Come risposta, il sindaco leghista, Alessandro Fagioli, aveva fatto tappezzare la città con 70 manifesti che riportavano la scritta: “Renzi e Alfano complici dell’invasione. Saronno non vuole clandestini”. Non contento, Fagioli aveva rincarato la dose dichiarando: “Non voglio africani maschi vicino alle scuole dove vanno le nostre studentesse”.

 

Dopo la denuncia di Asgi e Nega, due associazioni di volontariato, era arrivata la sentenza del giudice Martina Flamini della Prima sezione civile del Tribunale ordinario di Milano, che condannava la Lega ad un risarcimento danni di 10mila euro, più 4mila euro di spese processuali: “Con l’epiteto di ‘clandestino’ – spiega la sentenza – si fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale, ed è idoneo a creare un clima intimidatorio (implicitamente avallando l’idea che i ‘clandestini’, non regolarmente soggiornanti in Italia, devono allontanarsi)”.

 

La giudice sottolinea come l’utilizzo del termine “clandestini” determina una discriminante nei confronti di persone “in fuga per motivi di persecuzione”, creando nei loro confronti un clima di pregiudizio. Per questo motivo “contrariamente rispetto a quanto indicato nei manifesti per cui è causa, i 32 ‘clandestini’ sono persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Stato italiano di riconoscere loro la protezione internazionale – e aggiunge – Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano, perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo in caso di rientro nel paese d’origine di subire un grave danno, non possono considerarsi irregolari e non sono, dunque, clandestini”.

 

La sentenza assume particolare importanza perché sul termine clandestini si è giocata buona parte della comunicazione della Lega sul tema dell’immigrazione con una continua campagna denigratoria nei confronti dei rifugiati che arrivano in Italia. La sentenza, infatti, condanna la Lega anche alla pubblicazione del provvedimento sui suoi siti internet istituzionali, sulla Padania e su altri quotidiani nazionali per bilanciare gli effetti  “dell’elevato contenuto discriminatorio delle espressioni contenute nei manifesti, della loro portata denigratoria, della loro idoneità a creare un clima fortemente ostile nei confronti dei richiedenti asilo”.

 

Condannata in Primo grado, la Lega aveva fatto ricorso appellandosi ad un presunto “libero pensiero politico”, motivazione completamente smontata nella sentenza della Corte d’Appello arrivata lo scorso 5 febbraio. A tal proposito la sentenza specifica:  “La tutela contro gli atti di discriminazione si fonda essenzialmente sui principi fondamentali della Costituzione in tema di diritti inviolabili della persona, di adempimento dei doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali (art. 3 Cost.). Il divieto di discriminazione è inoltre sancito dall’art. 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – quindi, sottolinea l’ordinanza – Anche l’espressione di un’opinione ‘politica’, pur rappresentando estrinsecazione del diritto costituzionalmente garantito alla libera manifestazione del pensiero, deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto e la tutela della dignità delle persone alle quali è fatto riferimento, il che nel caso in esame non è avvenuto, risultando sussistente la responsabilità per la ravvisata condotta discriminatoria”.